Drive My Car è un film di Hamaguchi Ryusuke datato 2021 e tratto dal racconto omonimo di Murakami Haruki (sì, quello di “Norwegian Wood”, no, non quello che ha vinto il Nobel, quello è Kazhuo Hishiguro) contenuto nella raccolta “Uomini senza donne”.
Proprio dalla sceneggiatura alla quale lo scrittore stesso ha collaborato, parte la storia gloriosa di questa pellicola non convenzionale per temi e tempistiche: già forte infatti del premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes, vincitore successivamente del Golden Globe come miglior film straniero è da ieri ufficialmente in lizza per il sempre ambitissimo Oscar al miglior film.
Ne parliamo oggi, con molte più parole della somma totale di quelle espresse nella pellicola, ma molto più brevemente.
Vita interiore
In “Castelli di rabbia” (Rizzoli, 1991) Alessandro Baricco scrive:
“Accadono cose che sono come domande, passa un minuto, oppure anni, poi la vita risponde”
Per rispondere alle domande del protagonista sulla figura evanescente della moglie defunta, il tempo della storia, come si dice in letteratura a proposito delle tempistiche reali di svolgimento dei fatti, copre l’arco di due anni, quello del racconto (quello scelto dal narratore, in questo caso il regista, per raccontare la storia) impiega 179 minuti, ovvero, sì, tre ore.
Il primo pensiero che si ha superata la prima ora e mezzo e constatato che sono appena apparsi sullo sfondo i titoli di inizio film è che la nomination sia stata concordata da una giuria di insonni, grati al regista per aver finalmente risolto i loro problemi.
Superato lo scoglio incombente del sonno – al quale chi mi accompagnava ha ceduto senza troppe riserve- seguono pensieri deliranti come “è pur sempre un film, quanto vuoi che possa durare ancora?” ed infine la conclusione tecnica e disincantata “andrebbe visto a puntate. Di mezz’ora. In prima serata. Adesso lasciami dormire”.
E’ così, è un film molto lungo, tuttavia-
Tuttavia, la vita interiore scorre per tempistiche ben diverse da quella reale, ed è sempre così: ascoltare un uomo richiede una certa quantità di tempo, capirlo, tutta una vita.
Quello che accade
Yusuke Kufuko è uno sceneggiatore teatrale, sta scrivendo una piece su “Zio Vanja”, racconto di Anton Checov datato 1896, dunque ciò che vediamo è niente più che la sequela di eventi che portano alla realizzazione di uno spettacolo: la ricerca del soggetto, delle parole per dargli voce, la ricerca di un produttore e la scelta del cast, le prove collettive di lettura del copione ed infine quelle a teatro, dunque la messinscena.
Quello che vediamo davvero accadere nei centosettantanove minuti di durata di Drive My Car è un moto di rivoluzione tutto interiore che trasporta il protagonista dal passato pieno di nodi da sciogliere e il lutto per la moglie ancora da elaborare, al futuro delle verità, che altro non sono che narrazioni approssimative di una cosa che non farà altro che sfuggirci, per sempre.
Grande parte di questo moto ha luogo nella sua auto rossa, ma vista dal sedile posteriore, quello del passeggero. La postazione del guidatore è infatti occupata da Miura, giovane autista ventitreenne ingaggiata dalla compagnia che produce la pièce di Kufuku, schiva e riservata che assolve al suo compito di traghettatrice di anime da un luogo di lavoro all’altro. Non parla, non chiede, non rivela.
Eppure nel silenzio accade tutto: la conoscenza, l’affetto, il disvelamento delle verità, o quelle che crediamo che lo siano.
Drive my car
Nessuno meglio di me, che ho come unico bene a me davvero caro la mia auto, riuscirebbe a spiegarvi quanto lasciare il controllo proprio veicolo a qualcuno necessiti non tanto di fiducia quanto di profonda intimità.
Far guidare la propria auto a qualcun altro è farlo entrare in casa e lasciare che disponga gli oggetti che fino a quel momento stavano in un modo nell’ordine in cui più gli aggrada.
E’ rivelargli piccole verità su ciò che si è (quanto è lontano il sedile dal volante), ciò che si teme (come sono inclinati gli specchietti), ciò che ci diverte (la scelta delle stazioni radio), ciò che ci vizia e ci rende ferini (l’odore del fumo intriso nei sedili, la mascherina rimasta appesa con noncuranza allo specchietto retrovisore).
Dalle stazioni radio ai sedili, tutto diventa un organo scoperto, quella che conduce chi guida la nostra auto è una vivisezione delle parti fragili, e noi come pazienti col dottore lo lasciamo fare, sperando che ci porti dall’altra parte vivi, e che lo faccia con cura.
La vita risponde
Una volta fuori dalla sala semideserta –con ogni probabilità qualcuno è riuscito a sgattaiolare nel buio- siamo di nuovo fra le braccia gelide della vita reale, che con ogni probabilità non ha trascorso quelle tre ore più attivamente di noi. Ci diciamo convinti che è un bel film, anche se dura molto, e così con l’animo in pace ci congediamo.
Tornando a casa comunque, guido la mia macchina con l’invenzione di avere con me un ospite, qualcuno che non va distratto né svegliato, provo a prendere le curve dolcemente, a scansare le buche. E’ un habitat a sé, la macchina, un luogo intermedio tra quelli di partenza e di approdo, dove la vita si riduce a mero pensiero, come nel teatro Beckettiano.
E così ci capita che la vita risponda ad un interrogativo che s’era inabissato, mentre siamo al semaforo, che lo faccia palesandosi sulle strisce quella persona che non ci aspettavamo di rivedere (e di far attraversare con così tanta clemenza), che ce lo dica una canzone alla radio quello che avremmo dovuto sentirci dire, anni prima.
Baci fermi al semaforo,
Francesca