Qualche giorno fa mi è stato chiesto di parlare in pubblico di fronte alla modestissima folla di dieci persone, per la durata indolore di tre minuti.
Traducendo questa innocua richiesta nel linguaggio tachicardico di noi frequentatori dell’ansia sociale, ciò che mi è stato richiesto davvero è stato di parlare in pubblico davanti a ben dieci persone, per il lasso di tempo di tre minuti.
Superato un primo momento di immotivato entusiasmo per qualcosa che non sono solita fare ma che vorrei saper fare, mi assale una consapevolezza lancinante: io non li saprei riempire tre minuti di parole, dieci persone equivalgono a dieci opinioni diverse, farò sicuramente una figuraccia.
Poiché tuttavia non sono solita arrendermi prima che mi sia data ragione per farlo (e spoiler alert, nove volte su dieci la ottengo) decido di porre al vaglio varie ipotesi di riuscita:
1) lavorare su me stessa per superare finalmente l’ansia da prestazione
2) buttare giù un alcolico di varia natura in quantità shot.
Spero che sia chiaro a tutti, che, tra le due, la soluzione più accettabile per modalità ed efficacia, è certamente la seconda.
0,5
Secondo un filosofo norvegese, noi esseri umani nasciamo con un deficit di tasso alcolemico nel sangue deleteria per la nostra stessa crescita personale e professionale.
Dovremmo dunque trovare il modo di colmare questa carenza assumendo una dose quotidiana di alcool che non superi lo 0,5 e questo basterebbe a renderci più efficienti, o semplicemente più felici.
Questo è l’assunto di partenza che muove la trama di Un altro giro (Thomas Vinterberg, 2020), pellicola vincitrice dell’Oscar per miglior film straniero.
Raccolgono la sfida quattro insegnanti danesi sulla soglia funerea dei cinquanta, chi per recuperare fiducia, chi per implementare la propria resa professionale, chi per sentirsi felice, chi per non accorgersi di non esserlo più.
Un altro giro
Salutisti e perbenisti vade retro, per quanto possa sembrare fazioso data la mia premessa, 0,5 si rivela la quantità accettabile di alcool nel sangue per incrementare la fiducia in sé stessi, e dunque l’efficienza professionale e personale.
I quattro in prima istanza recuperano la voglia di insegnare, stabiliscono dunque un rinnovato (ma sembra a tutti la prima volta) contatto con la loro classe attraverso l’entusiasmo, e da questo contatto l’entusiasmo si rinnova fino a diventare autentico entusiasmo per la propria professione, e dunque per la propria vita.
Ad inizio film non li si potrebbe davvero definire alterati, quanto piuttosto ritrovati.
Confermando dunque la validità della teoria della compensazione del tasso alcolico, tutto sembra procedere secondo i piani.
Finchè non si chiede il fatidico ultimo giro, che poi altro non è che un altro giro.
Un altro uomo
Quello che i quattro protagonisti si aspettano di trovare sul fondo del bicchiere –o del simbolo ultra-nordico della bottiglia in alluminio- non è una vita più entusiasmante, ma un uomo più preparato a vivere.
Chiedono fiducia, implorano per un po’ di gioia, per sentirsi ancora come i giovani innamorati che non saranno mai più.
Sono commuoventi uomini di mezza età, niente di nuovo fin qui, la letteratura europea ce ne ha propinati di tutti i tipi, inetti in fin dei conti compatibili, poeti dotati di poco slancio e tanta sensibilità.
I quattro insegnanti raccolgono questo tipo di testimone archetipico e lo trasportano negli anni ’20 del 2000, gli anni della società della performance, dell’eterna gioventù, gli anni che hanno trasformato gli ex sessantottini in boomer, incapaci di vivere in quello che pronosticavano come un futuro remoto ed è già tremendamente presenti.
Ci commuove il volto instabile di Martin (interpretato da Mads Mikkelsen, peraltro novello Grindelwald in Animali Fantastici) seguito da una handcamera altrettanto instabile, che esce da una crisi personale profondissima, ci commuove Tommy, insegnante di educazione fisica, quando trova il coraggio di prendere per mano un piccolo allievo occhialuto della squadra di calcio, perennemente in panchina, ignorato dai compagni, dimenticato dalla famiglia.
Vino generoso
Prendo in prestito il titolo di un’opera poco nota di Italo Svevo (sì, ve lo giuro, non ha scritto solo La coscienza di Zeno) per lasciarvi una riflessione: l’alcool è un ospite generoso, che riempie le stanze e mette buon umore, ma nella misura in cui noi decidiamo di non esserlo altrettanto con lui.
Ad ogni modo, Un altro giro è un’ode alla libertà che l’alcool regala (e parimenti un warning su ciò che toglie), e dunque alla felicità che ne consegue, l’augurio che prima o poi le maschere cadano e che ciascuno di noi vi ritrovi sotto sé stesso.
Concludendo (ve lo prometto), un altro autore che alla solidificazione botulinica della maschera e al suo fugace disvelamento si è dedicato con successo è certamente Paolo Sorrentino.
Non deve dunque sorprenderci l’interesse che questo film sembra aver suscitato nell’autore napoletano, tanto da spingerlo a realizzare un’intervista alla quale rimando sia per le note di colore riguardanti il film, sia per quanti di voi volessero soddisfare qualche curiosità tecnica.
Di nuovo un PS
Per dare un finale alla mia storia iniziale, alla non ho attuato né la prima né la seconda soluzione, ho fatto i miei tre minuti di discorso e ascoltato i dieci pareri.
At male cesserit.
Baci sobri,
Francesca.