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Trentesima intermittenza

Benvenuti o ben tornati tra queste pagine,

Stasera ripropongo!

La dipendenza come ultimo baluardo

Le storie e le narrazioni che affrontano il macrotema della dipendenza mi hanno sempre affascinato. Tutto può creare assuefazione, e nessuno può scampare a questo strano meccanismo. La dipendenza, in queste storie, si configura come ultimo baluardo all’imprevedibilità della vita, e arriva a rappresentare l’unica certezza sulla quale la nostra esistenza poggia, più o meno temporaneamente.

Tutto può crollare, ma il sesso, l’eroina, e l’alcol (in questi casi specifici) saranno sempre lì a confortarci.

Nel mentre scrivo queste righe, mi viene in mente Paolo Bertinetti che, nella sua introduzione al volume che raccoglie il teatro di Beckett, spiega come l’autore abbia narrato qualcosa di completamente nuovo e inedito per il pubblico dell’epoca. Si è servito, però, della forma di rappresentazione più classica e più canonica di tutte: un palcoscenico. Nel secolo in cui Virginia Woolf, Marcel Proust, James Joyce, Italo Svevo, Sigmund Freud e molti altri disgregavano e minavano le certezza sulle quali si basava la società del tempo, Beckett necessitava di una struttura solida, la più solida di tutte, per poter costruire e mettere insieme la sua ricerca sull’assurdo.

E la dipendenza, nei casi che tra poco vi presenterò, esercita la stessa funzione.

Prima di partire, una premessa fondamentale: non sarò affatto oggettivo. I protagonisti di due tra queste opere sono finiti nei ringraziamenti della mia tesi di laurea. Sono miei amici e, un gruppo in particolare, mi accompagna quotidianamente. Perdonate la faziosità e l’amore con cui ne parlo, ma per merito (o per colpa) loro che sono diventato la persona che sono.

Soffocare

Se stai per metterti a leggere, evita.

Tra un paio di pagine vorrai essere da un’altra parte. Perciò lascia perdere. Vattene. Sparisci, finché sei ancora intero.

Salvati.

Ci sarà pure qualcosa di meglio alla tv. Oppure, se proprio hai del tempo da buttare, che so, potresti iscriverti a un corso serale. Diventare un dottore. Così magari riesci a tirare su due soldi. Ti regali una cena fuori. Ti tingi i capelli.

Tanto, ringiovanire non ringiovanisci.

Quello che succede qui all’inizio ti farà incazzare. E poi sarà sempre peggio.

Quello che trovi qui è la stupida storia di un ragazzino stupido. La stupi-da storia di vita vissuta di un tizio che mai al mondo vorresti conoscere. Questo coglioncello devi immaginartelo alto un metro e un cazzo e con una manciata di capelli biondi ben pettinati e con la riga da una parte. Questo stronzetto schifoso devi immaginartelo sorridente in una vecchia foto dei tempi della scuola, con qualche dente da latte caduto e i primi denti veri che spuntano storti.

Queste sono le prime righe del romanzo. Veniamo già catapultati nella psiche contorta del nostro protagonista, Victor. Respingendoci, il nostro protagonista ci attira a sé. Siamo subito incuriositi dalla franchezza con cui ci parla e si presenta. Victor è un ex studente di medicina fallito e un sessuomane. Che c’entra il titolo?

Victor campa recitando all’interno di ricostruzioni storiche: assume un’altra identità e la interpreta, come un attore su un palcoscenico. Ha una mamma ricoverata in una clinica di recupero per malati di Alzheimer, e questa lo scambia continuamente con altre persone. E, dulcis in fundo, finge di soffocare nei vari ristoranti della città. Sì, avete capito bene. Simula delle asfissie col cibo.

Sull’elenco telefonico c’è sempre più inchiostro rosso. Sempre più ristoranti cancellati con un tratto di pennarello rosso. Tutti posti in cui sono quasi morto. Ristoranti italiani. Messicani. Cinesi. Sul serio, ogni sera mi ritrovo con una scelta sempre più limitata su dove andare a cena per fare due soldi. Per costringere qualcuno ad amarmi con l’inganno.

La domanda è sempre: Allora, con cosa ti va di soffocare stasera?

Una volta che questa messinscena va a segno, viene puntualmente salvato da altri avventori. Questi trovano uno scopo nelle loro squallide vite, e Victor assume per ciascuno dei suoi salvatori un’identità diversa. Gli arrivano quotidianamente lettere di persone che lui nemmeno ricorda, le quali gli inviano soldi per il compleanno, per natale, o per altre festività. Soffoca continuamente in queste identità fittizie che si è creato per sopravvivere. Ma dov’è che riesce veramente ad affermare se stesso?

Nel sesso.

Non che queste donne non le ami. Le amo quanto si può amare il paginone centrale di una rivista, un video porno, un sito per adulti, e una cosa è certa: per un sesso dipendente lì di amore può essercene a palate.

Il tono del libro è tragicomico e superate le prime pagine possiamo più fare a meno di sapere come si comporterà Victor e, se ce la farà o meno a superare questa dipendenza. Io lo so, sta a voi scoprirlo.

Ho consigliato/prestato/regalato questo libro a molte persone della mia generazione che mi sono care, perché credo che indaghi molto a fondo e molto bene su cosa significhi veramente, affezionarsi. A scuola abbiamo affrontato, seppur blandamente, educazione sessuale, ma nessuno ci ha educato all’affettività. Siamo stati capaci, chi più chi meno, di affrontare l’atto in sé, ok. Ma dopo cosa succede?

Riprendendo Beckett: tutti i conflitti del mondo, e tutte le incomprensioni, nascono da problemi di comunicazione. Non abbiamo imparato a comunicare l’amore. 

«Vuoi sapere il vero motivo
per cui non ti scopo?».
Abbottonandomi le braghe corte le ho detto: «La verità è che forse vorrei solo volerti bene».

In quest’epoca dove tutte le storie durano ventiquattr’ore, il nostro Victor, attraverso i suoi sbagli, i suoi errori, i suoi sogni e le sue frustrazioni, può davvero rivelarci un’altra via. Può aiutarci ad intravedere una strada “altra” che ci apra la mente e ci fornisca maggiore consapevolezza. Come per lui, non sarà facile, ma vale la pena provare. Lo dobbiamo a chi ci circonda.

E, per inciso, il capitolo 40 è una delle cose più belle e delicate (pur parlando di una pipata in aereo) che abbia mai letto.

Chiudo e passo oltre, giuro.

Anna per sempre (Dylan Dog 404)

Per la prima volta parliamo di un fumetto seriale. Questo è il Dylan Dog 404, uscito il 30 aprile del 2020. Dal 401 questa serie ha subito una sorta di reboot. Siamo ripartiti: nuovo assistente, comprimari ridistribuiti, e nuovi nemici. Questa ciclo di 6 numeri prende il nome “666”, e vedremo dopo il 406 che cosa ci attenderà. Questa parentesi ci sta portando un nuovo status quo per Dylan e per tutti i personaggi che gli gravitano attorno. Innanzitutto, vuole ridefinire le origini, quei punti saldi che si erano, appunto, definiti con i primi albi della serie.

Questo albo riprende e rimescola le carte in tavola che erano state gettate nel numero 4 della serie, dal nome Il fantasma di Anna never. Il richiamo, a partire dal titolo è esplicito (Anna never // Anna per sempre). In questo numero, torna uno degli spettri più grandi di Dylan: l’alcol. Come al solito, non anticipo nulla, ma la vicenda connessa al ritorno della “bottiglia” sarà inserita in una lunghissima sequenza muta (più di trenta pagine), fatto stranissimo per un numero di Dylan! La storia verrà affrontata su più livelli e non sarà spesso ben chiaro se quello a cui stiamo assistendo sia la realtà oppure un sogno.

Ho particolarmente apprezzato la scelta di rendere muta la sequenza connessa al ritorno dell’alcol. Penso si sia voluto sottolineare in maniera magistrale, sfruttando al massimo il medium di riferimento, come la dipendenza avvolga ogni voce intorno a noi, arrivando ad annichilire i nostri stessi pensieri. Il “nemico del mese” sarà connesso a questa ricaduta, e la soluzione con la quale ne verrà a capo sarà originale e strettamente connessa al nostro tema. Anche qui, come per Victor, la via d’uscita sarà a portata di mano e più semplice di quanto possa sembrare. Spesso basterebbe solo guardarsi allo specchio, e non mentire a noi stessi… Ma sto dando troppi indizi e mi fermo qui! La lettura comunque è piacevole e sorprende trovare temi di questa intensità in un fumetto seriale, specialmente di questi tempi.

Per gustarsi al meglio questo numero sarebbe meglio recuperare i numeri dal 401 in poi, ma è godibile anche a se stante grazie al riassuntino che trovate prima della storia.

Trainspotting 2 (T2)

Penso che tutti conosciate, anche solo per sentito dire, Trainspotting, a meno che non siate vissuti, da vent’anni a questa parte, sulla luna. In questo caso, il mio consiglio spassionato è quello di ritornare sulla terra e guardarvi, o leggervi (sarebbe meglio fare entrambe le cose) questo capolavoro.

T2 è ambientato vent’anni dopo rispetto al primo capitolo, e, come il primo capitolo era la trasposizione cinematografica del romanzo omonimo, questo è la trasposizione del seguito Porno. Il primo romanzo era per lo più strutturato da brevi spaccati di vita dei nostri protagonisti, il secondo, invece, segue una trama unitaria. Scelta che viene ripresa anche dal film, ma la trama viene modificata e vengono cambiati i focus. Ora, dirò un’eresia: a livello filmico, ho apprezzato di più il secondo capitolo. A livello letterario non c’è storia: il primo è un capolavoro.

Ma cos’è che rende così unico, secondo me, questo secondo capitolo?

Sono passati vent’anni. Mark ritorna in Scozia: è ormai libero dall’eroina, ma così non si può dire per gli altri, e sarà compito suo aiutare Spud e Sick Boy a cercare altre strade. Della trama non parlerò più, perché è veramente semplice e sarebbe superfluo dilungarsi; anche nel rispetto di coloro che devono ritornare sul pianeta Terra. L’eroina era il fulcro del primo capitolo, qui è la nostalgia. La vera droga sono i ricordi, e passati i quarant’anni non si può fare a meno di guardare indietro e tirare le somme. Tutti i personaggi verranno risucchiati da un vortice dal quale non potranno fuggire, e ne usciranno tutti irrimediabilmente cambiati.

La vita pre dipendenza viene vista e idealizzata come un rifugio lontano da tutti i mali del mondo: foto di vecchi compleanni, nei quali abbracciavamo amici che non ci sono più, diventano tutto ciò che ci rimane di quel mondo. E quindi, presa coscienza del vuoto che ci siamo lasciati alle spalle, cosa possiamo fare? Tornare a casa, entrare nella stanza che era il simbolo della nostra adolescenza, rilassarci, e, come Jojo dopo aver tirato un calcio in culo al nazismo, ballare.

Ballare sui ricordi, ballare sul tempo che passa, ballare con tutte le persone che abbiamo perso, e ballare col bambino che era sopito in noi.

Accettare quello che siamo, al punto che il famoso monologo Scegli la vita del primo capitolo, che altro non era che una serena rassegnazione sul destino mortifero che spetta a tutti coloro che si “sistemano”, si trasforma in un potente ed emozionante dialogo pro life a 360 gradi. Sconfitta l’eroina, ritrovati gli amici di sempre ed affrontati i fantasmi del passato, possiamo davvero vivere di nuovo, e recuperare il tempo che abbiamo, stupidamente, perduto.

Siete dei tossici? Allora fatevi! Ma fatevi di qualcos’altro. Scegliete il futuro. Scegliete la vita.

Il finale (tranquilli, non vi rovino nulla) è magico. Spud, in preda ad un delirio creativo senza pari, va dalla moglie e le consegna un fascicolo pieno di fogli. Ha messo nero su bianco tutte le avventure dei nostri ragazzi. La moglie dice di avere già un titolo in mente… Probabilmente sono un malato di mente io, ma vorrei collegarmi al mio precedente articolo. Mi piace pensare che il romanzo Trainspotting altro non sia che la summa di tutte le storie raccolte e raccontate da Spud alla moglie, come se questo microcosmo appartenesse ad un altro spazio tempo, e non avesse bisogno di una mediazione autoriale esterna. Abbandonano il loro status di personaggi e diventano persone, con i loro vissuti, i loro racconti e le loro storie.

So che si tratta di una riflessione fatta da uno che con questi tossici di Edimburgo c’è rimasto sotto, ma è così bello sognare!

Grazie per avermi seguito in questo delirio. Spero che vi siate divertiti con me. Se vi ho incuriositi, lascerò come sempre i link per recuperare queste opere on line, qualora siate impossibilitati a recarvi in libreria.

Un saluto, e buona scoperta!

Gabriele

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